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Dal Convegno: “IL SUONO E LA PAROLA dialogo tra Musicoterapia e Psicoanalisi”

Che la Psicoanalisi e la musicoterapia possano dialogare questo è fuori da ogni dubbio. Non mi vengono in mente discipline che non possano parlare tra loro. La questione è, se mai, se le discipline possano avvalersi degli stessi dispositivi e questo è da vedere a partire da qualche elemento.

Lo sfondo scelto dal terapeuta, per esempio, cioè su quale scena voglia svolgere la cura.

Diverse prospettive terapiche si muovano nella direzione di rendere trasparente ciò che appare opaco al paziente, di conoscere ciò che non era chiaro e comunicarlo all’interessato. Oppure, si può esercitare nell’ottica che il disagio psichico sia l’effetto dell’apprendimento di schemi comportamentali ritenuti errati. Il terapeuta in questo modo interviene sul sintomo come disfunzione.

La psicoanalisi al contrario raccoglie il sintomo come funzione di sopravvivenza di qualcosa che non può per definizione essere integrato e resiste all’integrazione. A ciò che è opaco viene lasciata la dignità del rebus.

La storia stessa della psicoanalisi con Freud si inaugura a partire dall’osservazione del sintomo come mistero che interroga.

Tornando alla scelta del terapeuta, chiunque si affacci ad una dimensione di cura è chiamato a decidere su quale orizzonte praticare. La Psicoanalisi lacaniana su questo argomento è radicale: l sintomi sono la strada che conducono verso la verità. E la verità è la non padronanza del soggetto su sé stesso perché abitato dall’inconscio.

C’è chi riduce la questione dell’inconscio al credere o meno alla sua esistenza ma l’inconscio è certamente un costrutto teorico che ha iniziato ad esistere con Freud il padre che lo ha nominato. Tuttavia questa non è una faccenda da poco perché una volta nominato ha creato un luogo che si può ridefinire in molti modi diversi ma ciò che non cambia è che questo luogo rappresenta il rapporto del soggetto con l’alterità. Questo rapporto è animato da spinte vitali e distruttive strutturate secondo le interpretazioni del soggetto sul mondo e fatte precipitare in un luogo sufficientemente lontano per non creare troppa confusione. L’essere umano necessità di ordine in sé e con i simili per garantirsi una sopravvivenza non troppo angosciata.

Oggi vorrei parlare degli strumenti della cura della psicoanalisi e della possibilità da parte della musicoterapia di avvalersi di questi strumenti.

In definitiva, penso che la psicoanalisi e la musicoterapia, se l’oggetto del loro interesse è per entrambi la verità del soggetto, il rapporto con il suo Altro, il corpo animato da pulsioni e desideri, e se la musica è la catena significante in cui rimane impigliato l’oggetto sonoro allora possono essere utilizzati gli stessi strumenti e la musicoterapia può essere psicoanalitica.

Nominerò alcuni degli strumenti della psicoanalisi.

  • La Teoria
  • L’analisi personale
  • La catena significante
  • La lingua
  • Il transfert e l’interpretazione

Menzionerò infine l’arte come modalità di intervento.

Ci sono poi altri strumenti che tuttavia sono inediti e che non possono essere standardizzati perché concernenti la particolarità di ogni singola analisi.

Un tono di voce, un grugnito, una smorfia, una battuta un saluto eccentrico sulla soglia, sono strumenti specifici di quella seduta con quel determinato soggetto in un determinato momento e che sono legati all’atto analitico dell’analista e quindi irripetibili, non riutilizzabili.

La Teoria

Uno degli strumenti è la frequentazione della teoria. La teoria psicoanalitica è applicativa ed è quindi la cornice alla quale fare riferimento ed anche dalla quale prendere le distanze per poter operare. Lo strumento teorico si scandisce in due sequenze.

Quella in cui si prende come bordo e che rappresenta la cultura a cui si appartiene e a cui si fa riferimento.

Rapportarsi ad essa significa non operare in solitudine, implica la possibilità e la necessità di mettersi in discussione e di ripensare i presupposti attraverso cui si opera.

Verificarli nuovamente sulla base delle innovazioni teoriche e dei propri cambiamenti.

La seconda sequenza è quella in cui la teoria si mette da parte, lasciandola sullo sfondo creando così un’operazione di riconoscimento delle caratteristiche del proprio funzionamento e attraverso questo, perché no, aggiungere qualcosa di nuovo a ciò che manca nella teoria.

Ho parlato in principio di maneggiamento della teoria perché lo strumento non ha a che fare con l’acquisizione di nozioni ma con il movimento. Lo strumento della psicoanalisi ha più a che fare con l’andirivieni piuttosto che con l’assorbimento passivo di elementi. Non c’è una acquisizione definitiva a cui ci si possa affidare ma una rielaborazione continua. La teoria psicoanalitica, quindi, diventa uno strumento in questo movimento.

L’analisi personale

Non c’è teoria che sia strumento se i postulati non vengono fatti passare attraverso l’elaborazione della propria analisi. Concetti come la mancanza, la castrazione, l’oggetto, il desiderio, la pulsione di morte insita nel soggetto non sono che nozioni se non vengono passati al vaglio della propria carne. Ogni corpo soffre di una sofferenza unica, ogni sintomo può portare con sé la potenza stupefacente dell’originalità. Conoscere il proprio dolore, in generale, ma più specificatamente i propri sintomi è fondamentale per individuarne la particolarità e per distinguerli, dunque, da quelli di chiunque altro. L’analisi produce la capacità di conoscere il proprio limite e soprattutto di accettarlo rendendo possibile il riconoscimento dell’altro.

La catena significante

Lo strumento fondamentale della Psicoanalisi è la catena significante attraverso la quale si cerca di circoscrivere ciò che non si può dire. Ciò che non si può direi in psicoanalisi occupa un posto molto speciale.

Il significante è la parte formale, fonatoria della parola ed è la parte del segno che ha il primato sul significato che è l’immagine mentale della parola. Per Lacan non c’è simmetria tra significante e significato, il significante è un elemento lineare, non incontra deviazioni perché è semplicemente un contenitore, mentre il significato introduce degli elementi soggettivi, interpretativi; Per questo non è univoco come il significante. Il primato del significante proviene dalla visione strutturalista in cui la struttura, appunto è il campo del simbolico, della legge, della cultura che anticipa la presenza del soggetto. Questi si costituisce attraverso l’acquisizione del linguaggio elemento simbolico per antonomasia. Ma in questo modo manca ancor un elemento da inserire.

Una critica spesso mossa alla psicoanalisi è che si occupi solo dello psichismo allontanandosi così dalla dimensione corporea. Un luogo comune diffuso è che la parola implichi una mentalizzazione. Il presupposto della Psicoanalisi invece, è che non ci sia distinzione tra linguaggio e corpo perché il corpo è omogeneo al simbolo. J Lacan direbbe che il “corpo è dell’Altro”.

L’Altro grande rappresenta il campo del simbolico. L’essere umano nasce psicologicamente con l’incontro con il linguaggio, si fonda come soggetto e diventa corpo alterando definitivamente lo statuto dell’essere un organismo a partire dall’accesso al linguaggio. Questa operazione non è da darsi per scontata. Il soggetto sorge nella misura in cui perde qualcosa ad opera di una funzione che separa il bambino dalla madre istituendo una legge fondamentale di limite, interdicendo al bambino di godere senza limiti della madre, in favore dell’orientamento verso qualcos’altro. Accedere al linguaggio ad una dimensione condivisa implica, quindi, una perdita pulsionale che trova un limite nella legge del simbolico: L’individuo non può fare tutto ciò che vuole, la sua libido deve percorrere nuove strade come la sublimazione che trova un esempio nella produzione artistica. Sebbene stiamo parlando del concetto del limite imposto dal linguaggio voglio ricordare che la sublimazione può essere anche concepita in un nuovo modo e cioè, come dice Giovanni Bottiroli, come possibilità della pulsione e non come depotenziamento.

Va sottolineato come il linguaggio eserciti un’azione di taglio sul corpo del soggetto (separtizione), estraendone un pezzo. Questo pezzo è definito oggetto piccolo a ed è l’oggetto perduto dal soggetto a causa dell’azione di sottrazione esercitata dal linguaggio. Lacan dice: “il linguaggio uccide la cosa” (Il linguaggio permette di nominare gli oggetti che non sono presenti, si nomina ciò che non è presente, introducendo continuamente un altrove). Il linguaggio però è l’elemento che pone distanza rispetto al reale nudo e angosciante del godimento. Il godimento è un eccesso rispetto al giusto equilibrio del piacere ed è il ristagno della pulsione di morte.

Se si parla di linguaggio non si può non fare accenno al concetto di lalingua perché il linguaggio è costituito anche da questo elemento.

La lingua è un neologismo introdotto da Lacan per riferirsi al il supporto corporeo del linguaggio. Il linguaggio non è fatto solo di struttura ma anche di corpo

Dicevamo che Il soggetto è preceduto da un campo culturale di cui il linguaggio è il rappresentante più emblematico. Prima che il soggetto sia abile ad utilizzarlo esercita comunque uno strumento di richiamo ma anche di godimento che è lalingua. Il neonato, elicitato dalla funzione materna inizia a vocalizzare.

La parola ha origine dalla spinta a comunicare, lalangue si origina dalla spinta al godimento corporeo della pronuncia.

Se il linguaggio è sul lato dell’articolazione fonematica semantica dei significanti, lalangue è sul lato della lallazione dei significanti. Il linguaggio è sul lato dell’universalità mentre lalangue è sul lato della particolarità.

Il transfert e l’interpretazione

Il transfert è un movimento dell’inconscio che si attiva a prescindere dalla volontà ed è una condizione cardine della clinica analitica.

il transfert con Lacan oltrepassa l’idea di trasferimento sull’analista di vissuti passati con le figure di riferimento del paziente.

Si realizza, invece, nell’attualità del rapporto tra analista e paziente e quindi non è più solo una ripetizione ma una creazione nel presente.

Lacan definisce il transfert partendo dal concetto di “soggetto supposto sapere” e di “desiderio dell’analista”.

Questa supposizione si riferisce all’investitura del paziente sul curante di un certo sapere riguardo alla sua sofferenza. L’analista viene immaginato come il depositario delle soluzioni delle proprie angosce.

All’origine di un percorso di cura, infatti, c’è una domanda del soggetto che implica nel suo orizzonte la presenza di un Altro in grado di accoglierla e decifrarla. Per questo il transfert si attiva a prescindere dal tipo di percorso che si fa ed è una risposta automatica che parte in qualunque rapporto di supporto o di cura. Se il soggetto supposto sapere è il presupposto da cui parte il paziente, la risposta dell’analista è a partire dal proprio desiderio. Il desiderio dell’analista si fonda sull’apertura radicale all’inconscio che si rinnova e si allea alla spinta di sapere dell’analizzante sul proprio desiderio.

In ogni caso l’analista non detiene nessun sapere sulla verità del soggetto e se c’è una cosa che sa è proprio quella di non sapere. Questa è una di quelle lezioni che non si imparano sui libri ma si apprende nel corso della propria analisi personale.

In questo modo, Lacan, sostituisce il problema della conoscenza tecnica con la dimensione etica.

Quanto all’interpretazione è un’indicazione dell’analista e va fatta intervenire su un punto dove l’inconscio ribolle facendo emergere qualcosa. L’unica verità che può rappresentare l’interpretazione è che in quel punto l’inconscio si è manifestato nella sua forma più equivoca. L’interpretazione apre quindi la dimensione dell’enigma. Apre e non chiude, non è risposta, non è certezza, è il punto in cui l’analizzante apre il proprio lavoro di elaborazione. L’interpretazione è un accerchiamento del reale, del vuoto, di ciò che non è dicibile attraverso il simbolico e in questo senso l’analisi è un atto artistico.

L’arte

Prima dicevo che ciò che è impossibile a dirsi occupa un posto molto speciale in psicoanalisi. E’così! Questo indicibile è un oggetto che anima e può diventare motore di una ricerca continua.

Questo oggetto, tuttavia può essere degradato ad oggetto niente e quindi più che movente viene misconosciuto, negato oppure ingigantito sino a diventare persecutorio. A seconda, quindi del rapporto che il soggetto intrattiene con questo oggetto cambia il corso del suo rapporto con l’Altro. In arte come in psicoanalisi si tratta di bordare questo oggetto mantenendo la giusta distanza dall’oscenità della verità nuda. L’arte, come la psicoanalisi non è pornografica non è evidenza ma allusione. L’essere umano alla nascita è indifferenziato. Il rapporto con l’Altro, la scoperta del mondo, l’accesso al linguaggio sono processi che l’individuo apprende, ed è un andamento faticoso che avviene attraverso degli strappi. Il soggetto, quindi, impara il si e il no il qui e il là, la disuguaglianza tra sé e il mondo, la discontinuità, la separazione ed ogni volta è l’acquisizione attraverso una piccola o grande ferita. Ed è in queste fessure che sorge uno spazio vuoto che assume la consistenza e l’autonomia di oggetto. Questo spazio vuoto è proprio li a testimoniare la perduta unità, perduta per sempre.

L’arte racconta di questo oggetto perduto pur non toccandolo.

La materia che sia sostanza tangibile, suono o parola in ultima istanza è sempre rappresentazione del rapporto soggettivo con La Cosa, das ding come la chiama Lacan. L’arte è la spinta a trovare un nome o un’immagine per questa Cosa, il vuoto. L’arte della Psicoanalisi come le altre arti è un’organizzazione del vuoto, una messa in forma. La forma è il limite che divide la materia dallo spazio. Ma l’arte secondo Lacan, oltre al rapporto con il vuoto evidenzia anche il punto di cattura nell’opera d’arte dello sguardo del soggetto che si abbandona all’opera. Questo fenomeno è fondamentale perché il fruitore con il suo sguardo diventa, se l’opera è davvero un’opera d’arte, l’oggetto che manca all’opera e in ultima istanza rivela l’irraprensentabilità del soggetto. Vi sottopongo ora una visione del regista Romeo Castellucci il quale propone che l’arte non sia interessante dal punto di vista dell’ artista . L’artista, pensa, sia una figura superata e pone al centro la figura dello spettatore. In quest’epoca dove lo spettacolo è pervasivo, dice, lo spettatore è la figura chiave, è la figura che chiama è la figura che crea. E quindi uno dei movimenti politici fondamentali di quest’epoca è guardare. Trovo molto interessante questa versione per la sua appropriatezza rispetto alla portata soverchiante dello sguardo nella società attuale. Riamane il fatto che un’opera d’arte è tale se riesce a fare emergere l’incontro con il limite, Freud direbbe con la castrazione.

Se si parla del rapporto del soggetto con il vuoto e con il limite del significante non si può non nominare la clinica della psicosi. L’arte e la psicosi hanno in comune l’urgenza di trattare il vuoto.

Nella psicosi il problema è che il soggetto è a contatto con l’oggetto vuoto senza che ci sia alcun filtro, non c’è velo sul vuoto e per ciò il soggetto tenta di inventarsi delle soluzioni per contenere l’angoscia che ne deriva.

L’operazione dello psicotico, infatti è un tentativo di messa in funzione della catena significante come elemento distanziatore dal godimento, tuttavia trova degli intoppi, facilmente non riesce a scivolare oltre il rapporto binario degli elementi significanti e riduce l’invenzione ad una solidità rigida, poco flessibile. Il significante, infatti, fallisce il suo effetto di localizzazione del godimento, il corpo ne rimane imbevuto e va in pezzi. C’è un proliferare di deliri ed allucinazioni corporee nella schizofrenia: gli organi sono scollegati e non ancorati ad un punto. Il taglio sulla pelle diventa un modo per far fuoriuscire la tensione eccessiva che abita il corpo. Nella paranoia, invece, il fallimento della bordatura del significante avviene a livello ideativo e c’è un proliferare di senso: ogni cosa ha senso, sino al delirio persecutorio.

La Psicosi, dicevo è quindi una forma di trattamento del rapporto del soggetto con il vuoto e tuttavia non è la strada elettiva per la produzione artistica perché tende a non avere fluidità, fermandosi alla stereotipia.

Esistono però degli esempi molto interessanti di creazione artistica da parte di soggetti psicotici. James Joyce, per esempio, ha creato un nuovo modo di scrivere che ha bucato il simbolico riuscendo a farne parte ed anzi aggiungendo al simbolico uno stile che mancava.

Se Joyce mantiene un legame con il simbolico Antonin Artaud rimane incollato alla dimensione del reale del corpo e al suo godimento. Artaud crea un opera di corporizzazione del significante, come dice Jaques Alain Miller, che viene adoperato non tanto come rappresentazione ma come incisione del significante sul corpo. Il significante in questo caso è uno scavo operato da Artoud alla ricerca di un linguaggio sotterraneo.

E’ interessante ascoltare Artoud, ciò che più colpisce è che la voce non appartiene al soggetto ma all’Altro. Nella Psicosi infatti le voci arrivano dal campo del’Altro, il soggetto non le riconosce come parte del proprio pensiero, esplode il volume delle voci interne delle varie istanze del soggetto , le voci si manifestano nella loro estraneità.

Nell’arte musicale, questa dimensione che nella psicosi diventa terroristica, viene trattata attraverso degli strumenti.

Il delay , l’harmonizer ,e ce ne sono molti altri, sono tutti effetti applicati a voce o strumento che hanno lo scopo di alterare il suono, cioè di renderlo altro. Nel campo musicale c’è una ricerca che diventa produzione artistica

L’autotune invece è un mezzo che viene utilizzato ampiamente dalle grandi produzioni e va in una direzione molto diversa rispetto alla rappresentazione dell’alterità. E’ uno strumento che viene utilizzato fondamentalmente per epurare il suono dalle sue irregolarità che appare come stirato, pulito senza le sue naturali increspature. Questa è deriva del mondo musicale che annulla le differenze proponendo un suono ideale, omologante. Questa operazione è ben lontana dall’ atto artistico, che misura le distanze dalla verità facendola emergere è al contrario robotica e disumanizzante.

Vi lascio con l’ascolto e la visione di una performace strepitosa di Demetrio Stratos che interpreta Antonin Artoud

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